L’Istituto De Cillis mette in scena “Medea” al XXVII Festival Internazionale del Teatro Classico di Palazzolo Acreide
Articolo a cura della referente del progetto, la professoressa Rosy Franzo’
L’Istituto “E. De Cillis”, con il supporto del D.S Prof. Giovanni Di Lorenzo, ha progettato di rappresentare al XXVII Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani di Palazzolo Acreide, “Medea” di Euripide, il 05 giugno 2023 alle ore 9.30.
La tragedia narra la dolorosa storia di Medea, donna che ha abbandonato la patria, dopo aver ucciso il fratello, per seguire Giasone, uomo di cui lei si innamora perdutamente. Il racconto inizia con un intervento della Nutrice, la quale riassume gli antefatti della vicenda narrata: Giasone, il capo degli Argonauti, deve compiere una missione che per essere portata a termine, però, necessita dell’aiuto di Medea; questa si innamora del ragazzo e con lui, una volta sposati, si trasferisce a Corinto dove darà al marito due figli.
La vicenda vera e propria, tuttavia, si apre con la descrizione della disperazione di Medea, avvilita perché Giasone l’ha abbandonata per unirsi in matrimonio con la figlia del re della città, Creonte. Si apre così un’alternanza di posizioni e battute dei due protagonisti che si scontrano più che altro a livello verbale. Vista la pericolosità di vendicare l’offesa, Creonte la scaccia dalla città ma ella, con la scusa di non avere immediatamente una sistemazione fuori Corinto, riesce a posticipare di un giorno l’esilio: è proprio in questo arco di tempo che la donna vendica, attraverso i suoi magici poteri, l’oltraggio, uccidendo Creonte e sua figlia Glauce per mezzo di doni avvelenati. Ma la vendetta di Medea non finisce qui, per assicurarsi che Giasone soffrisse e non avesse discendenza, dopo un’angosciosa incertezza vince la sua natura di madre e uccide i loro piccoli figli: Mermero e Fere. Infine, fugge ad Atene col carro del dio Sole trainato da draghi alati, dove andrà in sposa al re Egeo.
Medea è una delle figure più emblematiche e complesse del teatro greco del V secolo a.C. Protagonista dell’omonima tragedia messa in scena da Euripide nel 431 a.C., nel sentire comune diventa presto l’emblema della donna tradita e abbandonata dal marito, ma, allo stesso tempo, si rivela una delle prime paladine della questione femminile, dimostrando una profondità psicologica che difficilmente si ritrova in altre figure del teatro euripideo.
“L’amore che aggredisce e travolge
sottrae gli uomini a fama e virtù”
Il personaggio assume una tale dimensione emotiva da sconcertare, l’amore diventa un tema essenziale che ha come elemento motore la donna. Euripide vuole svelare l’istinto materno, la passione, il furore e la gelosia, in un complesso crogiuolo di interrogativi violenti e incessanti, tra ragione e passione. Medea non si arrende passivamente al ruolo di moglie tradita, ma, anzi, raccoglie tutto il suo orgoglio di donna ferita, e dopo aver trascorso i primi atti del dramma chiusa nel palazzo, a tormentarsi nel proprio dolore e a maledire la propria sorte: entra in scena!
Abbandona il ruolo di moglie tradita e riveste quello di “Donna”, recitando un monologo che costituisce uno dei primi esempi di riflessione critica sul ruolo della donna nella società, che con pacatezza e forza dialettica conduce una rivoluzionaria analisi della figura femminile del suo tempo, ribaltando i tradizionali pregiudizi che vedevano la donna come “figura sullo sfondo”, destinata a una vita tranquilla in casa, lontano dalle armi e dai campi di battaglia.
“Poi dicono che noi viviamo una vita priva di pericolo, dentro le case, mentre loro combattono con le armi, ma hanno torto: preferirei stare tre volte vicina ad uno scudo, piuttosto che partorire una sola volta.”
Medea, insomma, torna padrona dei propri pensieri, della propria lucidità e soprattutto della propria fisicità: una volta entrata, non uscirà più di scena, fatto estremamente raro nel teatro greco, per le cui regole il protagonista non era presente in scena per tutto il dramma, ma solo in determinati momenti. Ora che Medea è tornata padrona di sé, decide di riappropriarsi anche dello spazio scenico, rappresentato dall’esterno del palazzo, luogo solitamente deputato alla vita civile e politica, appannaggio dell’uomo. La maga-barbara lascia il posto all’eroina, consapevole della propria condizione e di quella di tutte le donne, imponendosi con quella fierezza che manca a quel vile di suo marito, capace di barattare persino la propria famiglia pur di iniziare la propria scalata al potere. Le parole di Medea sono cariche di significato: la tragedia greca vive di eventi estremamente tragici, uccisioni di padri, di madri, di fratelli e di zii, ma non c’è nulla che faccia più accapponare la pelle di una madre che si pente di essere madre. Nell’antica Grecia, la maternità era strettamente legata alla figura femminile, quasi inscindibile: per essere donna, dovevi essere madre, e diventare madre, per quanto doloroso, era la cosa più bella che potesse capitare nella vita. Per Medea non è così: perso Giasone e persa la propria levatura sociale, i figli non servono più a nulla, anzi, la loro presenza continua a ricordarle cosa ormai non ha più e cosa ancora la lega all’uomo che l’ha tradita e abbandonata. Ormai consapevole del proprio ruolo di donna e di madre-non madre, Medea mette in atto la propria vendetta: annientare il futuro sociale e politico del marito non è abbastanza; per causargli la peggiore delle sofferenze deve annientare anche il futuro della sua stirpe: i bambini devono morire!
Leggendo l’intera tragedia, non si può che rabbrividire nel notare come la possibilità che Medea uccida i propri figli incomba in quasi in ogni scena: fin dall’inizio la nutrice dichiara che Medea
“… odia i figli, né si rallegra a vederli…”
Questa climax di attesa si risolve con la scena clou del dramma, che non consiste tanto nell’infanticidio in sé ma nel flusso di coscienza che Medea mette in atto nel momento in cui sta per agire. Si assiste, infatti, alla drammatica battaglia interiore di uno dei personaggi più complessi della tragedia euripidea, scisso tra ciò che è razionalmente giusto fare, e ciò che il proprio orgoglio ferito richiede che venga fatto. Quale rabbia cova nella sua anima? Uccide i figli per proteggerli? Per punire chi l’ha tradita sopprimendo il figlio e ogni legame con il padre? Si cancella come donna insieme alla sua gelosia patologica? Quante donne purtroppo lo fanno, forse nel folle tentativo di autoaffermarsi. Euripide mette in scena per noi questo abisso senza risposta razionale. Nella vastità e nell’insondabilità dell’animo umano, amore, odio, dolcezza e follia possono terribilmente coesistere in un unico essere umano calpestato, senza rispetto, per poi esplodere.
Un doveroso ringraziamento va al Dirigente Scolastico Prof. Giovanni Di Lorenzo per la sua attiva, dinamica e partecipe cooperazione, sempre propositivo per il perseguimento di un’effettiva crescita della scuola in tutte le sue dimensioni, nei suoi valori, nella sua funzione educativa e didattica. Inoltre, esprimo la mia gratitudine alle famiglie dei discenti che hanno creduto in questo progetto sostenendolo in tutta la sua complessità, perché solo una leale condivisione del progetto educativo tra famiglia e scuola può consentire il tanto auspicato successo scolastico e formativo. Ed infine, un abbraccio ai nostri “piccoli attori”, che interpretando l’attività teatrale come una delle forme più divertenti ed inclusive di raccontare una storia, hanno creato un ‘atmosfera quasi “magica”, pregna di confidenze, complicità ed amicizia, un’esperienza che ognuno di loro conserverà per sempre nel proprio cuore.
La referente del progetto, Prof.ssa Rosy Franzo’