“Giustizia in nome di mia figlia”, la madre di Aurora Serrentino scrive al ministro Cartabia

“Giustizia in nome di mia figlia”, la madre di Aurora Serrentino scrive al ministro Cartabia

Una lettera al Ministro di Grazia e Giustizia,
Dott.ssa Marta Cartabia, per “implorarla” di smuovere lo stallo giudiziario che dura da oltre otto mesi con la mancata fissazione dell’udienza in Cassazione che renderebbe definitiva la condanna nei confronti di Angelo Runza, condannato in primo grado alla pena di 7 anni e 8 mesi per delitto plurimo aggravato. Pena che sta scontando ai “domiciliari” e che è stata confermata anche in appello.

A chiedere “giustizia definitiva” è Vincenza Barone, madre di Aurora Serrentino, la 17enne deceduta assieme al fidanzato Christian Minando e la zia Rita Barone il 20 gennaio del 2019, nel tremendo incidente stradale sulla strada statale Rosolini-Ispica.

Di seguito la lettera integrale inviata da Vincenza al Ministro Cartabia:Onorevole Signora Ministro, sono Vincenza Barone, nata a Modica, il 14/09/1984, e residente a Rosolini, un piccolo comune in provincia di Siracusa. Le scrivo questa missiva per dare voce a un dolore che non tace e che non trova pace: la perdita di mia figlia Aurora, diciassettenne, in seguito a un terribile incidente stradale.

Avevo appena 16 anni quando ho messo al mondo Aurora. Ero poco più che un’adolescente ma mi sono subito assunta la responsabilità di essere madre di quella meravigliosa bambina che tenevo per la prima volta in braccio. Ho cresciuto mia figlia assicurandole una solida educazione e una buona formazione, nel rispetto dei valori e delle persone, in una famiglia sana. Non sa quante volte ho immaginato il giorno in cui sarebbe diventata grande, forse a sua volta madre, restituendomi la certezza di non aver sbagliato nulla. Purtroppo, il destino è stato crudele con lei e con noi.
Il 20 gennaio del 2019, quarantacinque giorni prima del suo tanto atteso 18esimo compleanno, mia figlia ha incrociato la strada della morte. Era in auto, diretta verso casa, alla guida il suo fidanzato Christian, nel sedile posteriore la zia Rita. All’improvviso lo schianto, la fine. Quella notte, tre persone sono rimaste esanime, sull’asfalto, e non sa cos’avrei dato per essere io su quell’auto, al suo posto, pur di evitare l’ergastolo della disperazione a cui mi hanno condannata. Quella notte, io, Vincenza, sono morta assieme ad Aurora, mia figlia. Sepolta la mia voglia di vivere, è iniziata una nuova esistenza segnata dal dolore. Sono già passati tre anni dalla sua dipartita e il mio cuore è rimasto in frantumi, su quell’asfalto. Inutile ogni tentativo di ricomporlo. Non vivo, semmai sopravvivo, obbligata ad andare avanti perché ho un altro figlio, Thomas, che ha appena 14 anni. Ma da quando non c’è Aurora, il sole non sorge più in casa nostra. Brancolo nel buio, accecata dalla rabbia di ciò che è stato e avrebbe potuto non essere. Mi chiedo “Perché? Perché proprio lei?”. Eravamo una famiglia felice. Con tanti sacrifici, io e mio marito abbiamo eretto un tempio d’amore: eravamo completi, assieme, noi quattro.

Da mamma a cui hanno strappato la ragion d’essere, oggi chiedo solo e soltanto giustizia in nome di mia figlia, anima pura e innocente. Finché avrò fiato, lotterò in nome di Aurora affinché la giustizia che sta nelle aule dei tribunali e a cui voglio ancora continuare ad appellarmi, faccia il suo corso, anche se
ad oggi, non abbiamo avuto risposta, e attendiamo, invano, da tre lunghissimi anni che Giustizia si pronunci in via definitiva.

Ma esiste davvero la Giustizia? Dove sta la legge se questa non punisce chi, una sera, in stato di ebbrezza, si mette alla guida in condizioni psico-fisiche alterate investendo, ad alta velocità e contromano, innocenti di cui causa la morte? Aurora non c’è più; mentre chi l’ha strappata dalle mie braccia sì. Sta agli arresti domiciliari, vive con i suoi genitori, supportato dall’affetto di parenti e amici come se nulla, quel 20 gennaio, fosse accaduto. Personalmente, non ho mai ricevuto scuse alcune né segno di pentimento da parte della famiglia del giovane che ci ha condannato a un’esistenza vuota e infelice. Non una parola di conforto, neanche per tramite del loro legale, per manifestare una minima vicinanza. Solo silenzio, un silenzio assordante. Mi dica, Onorevole Ministro, Lei crede che sia umanamente possibile tacere o stare fermi di fronte a un omicidio stradale plurimo e
aggravato?

Da tre anni, io, mio marito e mio figlio, lottiamo nella speranza che chi si è macchiato di tale colpa, sconti la sua pena.

In data 14.07.2020, infatti, il Giudice dell’Udienza preliminare del Tribunale di Ragusa a seguito di rito abbreviato, ha emesso la sentenza N.111/20 Reg. Sent. con cui il Sig. Runza Angelo (imputato dei reati di cui all’art. 589 bis, commi 1 e 2, comma 5 n.1 e comma 8 c.p.) è stato dichiarato colpevole del delitto di omicidio plurimo stradale aggravato e attuata la riduzione per il rito, lo ha condannato alla
pena di anni sette, mesi otto di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere; ha applicato all’imputato la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di
guida e ordinato il dissequestro del mezzo, ha altresì condannato l’imputato al risarcimento dei danni e al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili costituite.
Il GUP, accertata la dinamica del sinistro e l’attribuibilità della condotta, ha ritenuto sussistere l’aggravante della guida in stato di ebbrezza, invero si è accertato che il Runza si poneva alla guida in stato di ebbrezza alcolica con un tasso alcolemico di 2,13 g/l superiore al tasso minimo consentito di 0,5 e superiore a 1,5. Ulteriore profilo di colpa ascrivibile all’imputato è l’eccessiva velocità dell’autovettura su cui viaggiava il Runza, in quanto a fronte di un limite fissato a 90 km/h, il Runza procedeva ad una velocità pari a 147 km/h. Altresì davanti al Gup di Ragusa, veniva accertato che il Runza, in orario compatibile con quello dell’incidente e con la musica ad alto volume, scambiava messaggi tramite il proprio telefono cellulare.

In data 06/11/2020 l’imputato Sig. Runza Angelo tramite il Suo legale di fiducia ha proposto appello dinnanzi alla Corte d’Appello di Catania avverso la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Ragusa chiedendo in applicazione delle circostanze attenuanti una riduzione della pena.
In data 12.03.2021 la Corte d’Appello di Catania ha rigettato l’appello proposto e confermato la
sentenza di primo grado emessa dal GUP del Tribunale di Ragusa, condannando così il Sig. Runza Angelo.

In data 21/07/2021, N.888/2021 R.I., l’odierno imputato, tramite il suo Legale di fiducia, ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Catania e ad oggi, dopo ben otto mesi, si attende ancora la fissazione della relativa udienza, il Runza è sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari.
Al Runza è stata applicata una condanna di 7 anni e 8 mesi, attualmente sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, col rischio che possa essere diminuita così evitando il carcere e lasciato libero di vivere serenamente la sua vita. In tutta questa triste vicenda, i soli condannati all’inferno terreno siamo io e la mia famiglia. Il tempo dunque scorre, soprattutto per le vittime, che non ottengono in tempi ragionevoli la certezza di una pena, come è doveroso in un sistema di giustizia. Non può dunque non essere in salita lo sforzo di rendere credibile una giustizia che pur potrebbe essere anche più efficiente, oltreché più umana, se sempre meno repressiva e sempre più riparativa.
Chiedo a Lei, Onorevole Ministro, da donna a donna, da madre a madre, se può intercedere affinché giustizia venga fatta e chi sbaglia paghi scontando la pena prevista nei tomi che custodiscono i riferimenti normativi da cui attingete. Nella nostra lingua non esiste la parola che possa tradurre lo stato del lutto di un genitore che perde un figlio, ma non vorrei, domani, dovermi definire anche orfana di giustizia. È vero, nessuna condanna potrà mai riportare in vita la mia Aurora; ma se chi ha sbagliato, non pagherà per il male commesso, la nostra Aurora sarà uccisa due volte: la seconda per mano di uno Stato complice e consapevole.

Ogni giorno, mi reco al cimitero e parlo con la lapide di mia figlia. Penso a quanto sarebbe stato luminoso il suo futuro, che era già costellato da una miriade di desideri e di progetti da realizzare.
Invece, tutto si è spento: le nostre speranze e i nostri sogni si sono colorati di rosso, il rosso del sangue, sepolti a pochi km da casa.
Ogni mattina, entro nella cameretta di mia figlia, le pareti dai toni pastello e i peluche accanto ai cuscini: il letto è come lo ha lasciato lei, nell’armadio i vestiti, e alle pareti poster e fotografie ritraggono un’adolescenza felice e serena. Tutto mi parla ancora di Aurora. Così, ricordo dopo ricordo, ora dopo ora, settimana dopo settimana, mentre si allunga lo spazio del tempo che ci separa, un pezzo di me muore, di fronte al senso di assoluta impotenza che mi assale.

Voglia gradire, Signora Ministro, l’espressione della mia più alta considerazione, certa che, semmai avesse la bontà di leggere questa lettera dal tono informale ma del tutto sincera, riuscirà a comprendere le mie ragioni. La imploro con il cuore puro di una mamma che si aggrappa ai ricordi per non scivolare via. Tutto ciò che mi resta, ormai, è assicurare che i miei angeli, Aurora, Christian e Rita, riposino in pace. Per la pace eterna, ci si appella alla giustizia divina; ma per quella terrena è a Lei che mi rivolgo, affinché possa io uscire dal limbo dell’attesa del giudizio. Solo quando la Cassazione si pronuncerà, potrò forse lasciare spazio alla rassegnazione.
Una mamma
Vincenza Barone”.

 

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