“Questa panchina è dedicata alla signora Francesca Di Raimondo”. Lettera di una figlia alla collettività

“Questa panchina è dedicata alla signora Francesca Di Raimondo”. Lettera di una figlia alla collettività

Questa panchina è dedicata alla signora Francesca Di Raimondo”. Recita così la targhetta a corredo di una delle sedute che si trovano all’interno del Parco giochi Giuliana Trombatore, in Piazza XXIV maggio, a Rosolini. E io, Alessandra Brafa, ho atteso la giornata odierna, in occasione del terzo anniversario della dipartita della suddetta signora, per sedere su quella panchina.

Qualche mese fa, mi sono recata in questo parco giochi per intervistare – per uno speciale del Corriere Elorino– il suo custode, il signor Luigi Trombatore. Sua l’iniziativa di dedicare una panchina alla signora Di Raimondo, per l’affetto che ha legato le famiglie e anche, forse, per la disgrazia che le ha unite. Sia Giuliana, sua figlia, che Francesca, mia madre, a età differenti, sono andate via per lo stesso motivo: un tumore al cervello, il glioblastoma grado IV. Due perdite potenti: Giuliana se n’è andata nel 2018, anno in cui presentai, assieme al padre, il primo Concerto per la vita a lei dedicato. L’anno seguente lo ripetemmo: fu un successo. La famiglia Trombatore aveva organizzato una raccolta fondi per la ricerca. La signora Francesca applaudiva in seconda fila e donava con gioia, ignara che una settimana dopo lo avrebbero diagnosticato a lei quel cancro, e che nel 2022 si sarebbe, infine, spenta per lo stesso male.

La morte è un evento personale, lo so, ma è l’esperienza più universale che esista. Nessuno è immune da questo dolore, ma tutti possono essere importanti per attraversarlo. Luigi, con un gesto concreto e inatteso, ha alleviato il mio. Nel parco vi sono altre panchine recanti nomi di concittadini scomparsi, un encomio alla loro storia professionale e umana. È un luogo di calma, che lui prova a rendere un grande giardino fiorito, dove bellezza e memoria coesistono.

Sono arrivata al parco pochi minuti prima che suonasse la campanella di uscita della scuola primaria. Non avevo fatto caso all’orario. Pensavo sarei stata da sola perché l’intenzione era quella di stare sola a ricordare; invece no, pochi secondi dopo essermi seduta, mi ha raggiunto una nonna che, affaticata, ha poggiato lo zaino della nipotina. “Posso?”. La signora, sedendosi, ha coperto con la sua schiena la targa. Ho sentito fastidio. Era come se una sconosciuta avesse oscurato la visibilità di quel nome: Francesca Di Raimondo. Allora, ho rotto il silenzio e, con moto d’orgoglio, come una bambina che si vanta del genitore con i suoi compagnetti, ho esclamato: “Sa, signora, questa panchina è dedicata alla memoria di mia madre”. Sulle prime, le mie parole hanno destato in lei stupore. Poi, a tratti dispiaciuta per aver inavvertitamente impedito la visione della targa, ha cambiato di posto e mi ha guardata con occhi amorevoli. Lo sguardo è un canale privilegiato per entrare in empatia. Con la signora inizio una conversazione e, come accade in paese, mi è bastato aggiungere: “Mia madre è la moglie di Saro Brafa il gommista”, per meritare la confidenza.

La conoscevo! Che brava donna che era!”. Mi ammutolisco e lei prende a raccontare un aneddoto di suo figlio, cliente dell’officina. Mentre sono immersa nella sua narrazione, e appunto frammenti di esperienze vissute da mia madre che non conoscevo, la nipotina reclama la sua attenzione. A quel punto, si allontana non prima di avermi confidato le avversità che hanno colpito anche la sua famiglia.

Ancora una volta, mi trafigge come una lama constatare che il cancro non conosce età, sentimenti, persone, e colpisce, quando vuole, senza pietà.

Rimasta sola, realizzo che per i fruitori del parco di adesso e per quelli che verranno, quel nome – Francesca Di Raimondo– sarà uno tra tanti mentre, per me, rappresenta la persona che continua a stare al centro del mio mondo. Eppure sono certa che le centinaia di ragazzini che sosteranno lì, anche se non sapranno mai chi era Francesca Di Raimondo, inconsciamente memorizzeranno il suo nome, augurandomi che su questa terra per una Francesca Di Raimondo che ha lasciato la sua impronta, ne nasceranno altre cento capaci di rendere questo mondo meno ostile.

Io oggi ho deposto una rosa rossa che a ben guardarla era come la rosa più bella e rossa che abbia mai visto: la vampa del sole l’accendeva di un colore ancora più intenso. Sarei rimasta lì a fissare la rosa e il nome di mia madre per ore. Mia mamma non era una persona nota fuori dal territorio. Non aveva alti studi né titoli, non ha scoperto né inventato nulla, ma aveva una grande dignità, quella che non si compra, ma si costruisce. Ha vissuto una vita umile e piena, è stata provata più volte, ma si è rialzata come il giunco che si abbassa aspettando che passi la piena. Ha amato incondizionatamente ed è stata amata, donando e donandosi agli altri con tutta se stessa.  Ha perso una sorella e una figlia, entrambe nel fiore degli anni, ma nella comunità ha trovato mille e più fratelli, di diverse lingue, tradizioni e colori. Mia madre ha creduto nella genuinità e gratuità dei sentimenti, nel potere rivoluzionario della gentilezza, nei sorrisi che guariscono la malinconia, nella capacità di osservare eventi e situazioni con occhi buoni. Sempre dalla parte degli ultimi, umile, operosa e mai invidiosa, è stata una donna semplice e altruista. Prima di tutto mamma, ma anche moglie, amica, comare, zia e confidente di tanti. Ha vissuto al fianco di mio padre e all’ombra dei successi delle sue figlie, di cui è stata il trampolino; si è professata atea conducendo una vita in cui mi ha mostrato con l’esempio cos’è la fede.

Quella rosa era così bella perché l’ho associata a lei, ma quella bellezza floreale non ha colpito solo me. Mi è bastato allontanarmi per osservare, al di là delle grate, in lontananza, due bambine correre verso la panca ora vuota e prendere in mano la rosa, accarezzarne i petali, abbandonando il fiore di ibiscus che avevano colto altrove.

Oggi, 30 gennaio, come tre anni fa, c’era il sole e c’era il vento. Sono entrata nel parco da sola, in silenzio, ma all’improvviso nel pieno del mio lutto è esplosa la vita: un viavai di gente e scolaretti che corrono per sgranchire le gambe dopo le fatiche della scuola. C’era un micromondo lì dentro a cui non appartengo ma che mi ha accolto. C’era uno spaccato chiassoso di meravigliosa interculturalità.

C’erano le mamme con i loro figli vivaci, e poi c’ero io con mia mamma.
Questa panchina è dedicata alla signora Francesca Di Raimondo”. Grazie a chi vive il parco e lo rispetta. Grazie a Luigi per questo gesto che, per me, è un soffio di eternità.

Alessandra Brafa

CATEGORIE
Share This

COMMENTS

Wordpress (0)
Disqus ( )