Riflessioni di LIBERA sul Codice Antimafia: i rapporti con ANAC (di Carmelo Blancato)
A cura di Carmelo Blancato (associato LIBERA – amm. giudiziario Ministero Giustizia)
Le ragioni di un Codice antimafia
Sono trascorsi dieci anni dall’approvazione del Codice antimafia (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonche’ nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia), istituito con decreto legislativo n. 159 del 6 settembre 2011. Era stato pensato come un testo unico della legislazione antimafia, al fine di rispondere all’esigenza di razionalizzare la normativa esistente e consolidare il sistema giuridico complessivo nato con la legge Rognoni-La Torre del 1982, che rappresentò uno spartiacque in termini di strumenti di contrasto e conoscenza del fenomeno mafioso.
Da tutti – istituzioni, magistratura, associazionismo – il Codice antimafia era stato auspicato quale strumento per coordinare, semplificare, innovare e potenziare l’efficacia della legislazione antimafia, armonizzandola con gli indirizzi dell’Unione europea e degli organismi internazionali. La necessità di adottarlo al più presto, venne, infatti, inserita nelle principali proposte contenute nei due manifesti degli Stati generali dell’antimafia organizzati da Libera nel 2006 e nel 2009.
I limiti del testo approvato
Ma furono evidenti già dalle prime bozze sia i tempi ristretti di discussione sia i limiti dei suoi contenuti, non rispondenti alle aspettative ed ai compiti affidati dal “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia” varato con la legge n. 136 del 13 agosto 2010, approvata con voto unanime dal Parlamento. E soprattutto emersero e furono subito evidenziati i rischi di fare dei passi indietro rispetto ai risultati raggiunti nella lotta alle mafie, nonchè di vanificare gli sforzi compiuti dalla magistratura e dalle forze di polizia nelle indagini finanziarie e nell’aggressione ai patrimoni illecitamente accumulati dalle organizzazioni criminali e mafiose.
Lo schema di decreto legislativo, anche per i limiti derivanti dalla legge delega e per l’oggettiva difficoltà di procedere ad un’opera ricognitiva, non intervenne sull’articolata legislazione penale antimafia, inserendo nel Codice solo poche disposizioni estrapolate dal codice penale e dalle leggi speciali.
Nel Codice confluirono in larga parte le norme sulle misure di prevenzione personali e patrimoniali, presenti nel nostro ordinamento giuridico dal 1956, sulla gestione e la destinazione dei beni confiscati, sulla tutela dei diritti dei terzi, insieme con una sezione dedicata alla documentazione antimafia, all’Agenzia nazionale (istituita un anno prima) ed agli organismi investigativi nazionali.
E venne allo stesso evidenziato come un complessivo riordino della legislazione non poteva non tener conto – tra le diverse priorità – quella di recepire le disposizioni europee e internazionali, colpire efficacemente i legami tra mafia e politica, tutelare le vittime ed i loro familiari insieme con i testimoni di giustizia, introdurre i delitti contro l’ambiente, l’autoriciclaggio e rafforzare la normativa anticorruzione.
Molte delle suddette modifiche di diritto sostanziale e processuale sono state introdotte successivamente, al di fuori dell’ambito di applicazione del Codice antimafia.
La documentazione antimafia ed i rischi delle semplificazioni e delle deroghe al codice degli appalti
Gli strumenti legislativi del nostro Codice antimafia, scritti anche dopo il sacrificio di tante vittime innocenti, servono da un lato a colpire i patrimoni accumulati illecitamente e gli imprenditori che riciclavano i soldi delle mafie, dall’altro, a tutelare la buona economia.
Anche le disposizioni contenute nel Libro II del Codice antimafia, in materia di documentazione, comunicazioni e informazioni antimafia e sulla Banca dati unica nazionale, risultano importanti e da rafforzare, alla luce dei recenti provvedimenti in materia di deroghe al codice degli appalti e snellimento delle procedure, che segnano ancora una volta un mancato cambiamento dalla logica emergenziale. In questa fase cruciale di rilancio degli investimenti pubblici e di numerose sovvenzioni finanziarie a soggetti privati, infatti, gli strumenti di prevenzione e contrasto di mafie e corruzione andrebbero rafforzati e resi più efficienti, non considerati un intralcio, causa di rallentamento nell’applicazione di astratti – e certo condivisibili – principi di semplificazione e velocizzazione.
Occorre, come ribadito più volte, investire nella trasparenza dei processi, nella consultazione della società civile responsabile per la definizione dei bisogni collettivi e per un controllo diffuso, nella qualità dei progetti e sulla loro sostenibilità ambientale e sociale, assicurando maggiori tutele di legalità e per la sicurezza del lavoro. Più in generale, nella capacità di gestione e nelle competenze tecniche di una Pubblica amministrazione chiamata a sostenere uno sforzo straordinario nonché sulla razionalizzazione, riduzione e qualificazione delle stazioni appaltanti, insieme con il potenziamento delle misure di prevenzione anticorruzione e di valorizzazione del ruolo dell’Anac.
Da questo punto di vista, anche le interdittive antimafia sono misure di prevenzione sempre più in aumento . La loro applicazione rigorosa da parte delle Prefetture ha fatto emergere – in tutta Italia – forme di collusione e connivenze e frequentazioni tra imprenditori, mala politica e corrotti. Provvedimenti che sono serviti per spezzare quei legami e per ridare respiro ai tanti imprenditori onesti nel nostro Paese.
Oggi serve ancora di più rigore e capacità di lettura delle nuove frontiere delle mafie e delle nuove dinamiche di inabissamento e normalizzazione e le misure di prevenzione sono strumenti essenziali per colpire le vecchie e le nuove mafie.
Mai , come in questa fase, si innesca un “diabolico meccanismo” al fine di voler sgretolare un “Codice” mal gradito agli ambienti malavitosi ! E’ pur vero, difatti, che altri “ambienti” chiamiamole lobbies stanno già lavorando per smantellare questo meraviglioso codice, rivolgendosi, di fatto, alla Corte di Giustizia Europea, anche tramite ambienti universitari , con il solo intento di azzerare la costruzione meticolosa e certosina di uno strumento legislativo Unico al mondo, che riesce ad intervenire in fase preventiva , senza attendere i 3 gradi di giudizio, in questa Italia certamente garantista dei diritti, ma a volte troppo lenta nel dare risposte al contesto sociale ed economico.
Ribadisce ed auspica, chi scrive , invece un allargamento della applicazione del CAM alle partecipate , che tanto danno stanno creando ai bilanci degli enti locali, sfuggendo volutamente al Testo unico degli enti locali.
Carmelo BLANCATO ( associato LIBERA – amm. giudiziario Ministero Giustizia)