Referendum taglio parlamentari, una scelta che va oltre un semplice “Si” o “No”? L’analisi del giovane Giuseppe Covato
Si avvicina la data del referendum costituzionale sulla riduzione di un terzo del numero dei parlamentari di Camera e Senato, e in attesa del 20- 21 settembre, data in cui gli italiani saranno chiamati alle urne, continuano le prese di posizione e le riflessioni politiche sull’argomento, non solo a livello nazionale coi politici che stanno già tentando di influenzare il futuro voto degli italiani, ma anche a livello locale con giovanissimi cittadini rosolinesi che intendono esprimere il proprio punto di vista al riguardo.
A condividere stavolta le ragioni della propria scelta, il giovane compaesano Giuseppe Covato, membro della Commissione III – Sanità e politiche sociali – del Consiglio Regionale della Lombardia a Milano. La sua scelta è una scelta che va oltre un semplice “si o no”, e che vale la pena di leggere in quanto rappresenta un’attenta e minuziosa analisi tecnica e politica di quello che comporteranno per l’Italia e gli italiani il risultato del quesito a cui verremo sottoposti.
Il testo della nota che ha inoltrato alla nostra Redazione.
“Il 20 e 21 settembre saremo chiamati a votare per il Referendum costituzionale sul “taglio dei parlamentari” ossia “modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”. Cerchiamo allora di capire bene quale è la portata del Referendum poiché quando si mette mano alla Costituzione occorre farlo in maniera ponderata, accurata e senza ideologie politiche. Il voto sulla Costituzione deve e dovrà sempre essere un voto di rispetto alla “Carta più bella del mondo”.
Innanzitutto la norma sottoposta al quesito referendario è stata licenziata in seconda lettura da Camera e Senato in data 8 ottobre 2019, ultimo voto a Montecitorio con una maggioranza dei 2/3 dei deputati. Tuttavia, non essendoci stato il raggiungimento dei 2/3 anche in Senato, 71 senatori hanno depositato la richiesta di referendum presso la corte di Cassazione il 10 gennaio 2020, ai sensi dell’art. 138 della Costituzione.
Il quesito, al quale rispondere Si o No, sarà: Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?
Per analizzare le ragioni del Sì e del fronte del No occorre cercare di riflettere sul perché la nostra Costituzione prevede un totale di 630 deputati e 315 senatori. Nel 1963 fu approvata una legge costituzionale che fissò a 630 i deputati e a 315 i senatori. La riforma garantì un miglior equilibrio del sistema bicamerale: il rapporto fisso di 2 a 1 dei parlamentari favorisce infatti una migliore rappresentanza di entrambe le camere in occasione delle sedute comuni del Parlamento, che è la modalità di convocazione richiesta, fra le altre, per l’elezione del Presidente della Repubblica e la sua messa in stato di accusa, per l’elezione di cinque membri della Corte costituzionale e per l’elezione di un terzo del CSM.
La riduzione dei parlamentari determinerebbe, come primo risultato, un rapporto di rappresentanza enormemente diverso, si passerebbe, infatti, da circa 96mila abitanti per deputato a circa 151mila abitanti per deputato. Al Senato, invece, dove i seggi sono attributi su base regionale, dato che il numero minimo sarebbe di 3 senatori e non più 7, sarebbero eletti i partiti più votati con un sacrificio della rappresentanza delle minoranze.
Attualmente, l’Italia ha un numero di parlamentari per numero di abitanti simile a quello dei grandi Paesi europei; dopo la riforma diventerebbe invece uno il paese con il più basso livello di rappresentanza politica in rapporto alla popolazione dell’intera Unione Europea. Il risultato sarebbe quello di sterilizzare in parte le capacità del nostro Parlamento di rappresentare il popolo che lo ha eletto. Questo delicato rapporto e il consequenziale abbassamento del rapporto rappresentante/cittadino avrebbe un riverbero naturale sul potere delle leadership politiche che politicamente diventerebbe enorme. E, al di là della scarsa capacità di autonomia intellettuale che è da tempo molto evidente nella pancia dei partiti, diminuendo il numero dei parlamentari questo potere crescerebbe ancor di più a discapito di quel principio, già presente nelle mente dei padri costituenti che avevano vissuto il fascismo, di una politica nelle mani dell’uomo solo al comando.
Si ridurrebbe , quindi, a poca cosa la libertà dei singoli parlamentari, rendendo anche più difficile l’affermazione di una dissidenza interna alla linea partitica e di un pensiero non allineato alla visione del leader. In questo modo si finirebbe per trasmigrare sul Parlamento un rapporto di forza che, pur legittimo all’interno dei singoli partiti, non lo è più quando riguarda soggetti, come i parlamentari, che dovrebbero rappresentare ciascuno l’intero paese e non una parte di esso, quand’anche quella che lo ha eletto. In termini prettamente costituzionali c’è il rischio di realizzare nella sostanza una elusione del divieto del vincolo di mandato sancito dall’articolo 67 della Costituzione. In termini assoluti, ciò potrebbe finire per incidere negativamente, perfino, sull’equilibrio, già manomesso da tempo, tra i poteri dello Stato. Basti pensare al delicato rapporto istituzionale tra Governo e Parlamento che, come prevede la Costituzione, si regge sul rapporto di fiducia. In futuro i parlamentari potrebbero trovarsi a dover rispondere con sempre meno possibilità di dissentire agli ordini del Presidente del Consiglio, che di norma è anche il capo del partito di maggioranza. Si finirebbe insomma per consolidare un parziale rovesciamento di quel rapporto, pericolosamente già in corso da tempo.
Ma le riflessioni vanno oltre. Se il referendum venisse approvato Camera e Senato avrebbero il delicato compito di modificare i regolamenti parlamentari. Specie al Senato, dove l’ultima riforma del regolamento è del 2017, il rimaneggiamento del regolamento parlamentare sarebbe addirittura essenziale. Infatti, i regolamenti vigenti sono tutti costruiti attorno ai numeri attuali e non potranno funzionare bene con i numeri nuovi. Basti pensare al numero dei componenti oggi previsto per Ufficio di Presidenza, per le giunte o le commissioni. Tecnicamente non basterebbe ridurlo poiché si creerebbero distorsioni in termini di rappresentatività. Vi è poi da chiedersi se i gruppi parlamentari avranno un numero minimo di parlamentari inferiore a quello attuale per la loro costituzione come faranno a essere presenti i parlamentari in tutte le commissioni? Magari diventerebbe necessario accorpare o sopprimere alcune commissioni, riducendo così il numero complessivo dei luoghi deputati ai lavori di legiferazione di dettaglio.
Oltre alle analisi più squisitamente tecniche che assorbono la materia costituzionale non mancano i retroscena politici. Veniamo, quindi, alle ragioni strategiche in chiave politica. La vittoria del Sì verrebbe inevitabilmente fatta propria dal M5S, indipendentemente da chi aveva sostenuto in Parlamento la regge di revisione. E lo sarebbe, inutile nasconderselo poiché questo tema è da sempre un cavallo di battaglia di grillini. Ne hanno fatto la bandiera di ogni campagna elettorale e con alleanze e governi sono riusciti a portarla quasi a termini.
Il PD non ha ancora espresso una posizione ufficiale e ha convocato una direzione nazionale. Ovviamente della paternità M5S del taglio il PD ne è ben consapevole tanto è vero che i dirigenti democratici sono ben pronti a pagarne il prezzo perché, a rigore, è l’unica strada per rafforzare l’intesa con i 5 Stelle anche a livello locale, nonché per cementare l’alleanza di governo in vista della elezione del Presidente della Repubblica e degli ingenti fondi europei in arrivo che necessitano di un piano di Governo condiviso e preciso. Non sono pochi però gli esponenti dem che si oppongono al taglio, fra i quali Gianni Cuperlo, Matteo Ordini (ex presidente del partito) ed il sindaco di Bergamo Giorgio Gori.
Lega e Fratelli d’Italia hanno da sempre manifestato il loro Si alla riduzione mentre Forza Italia non ha una pozione chiara e ufficiale.
Uno degli argomenti che il fronte del Si utilizza per fare campagna elettorale è senza dubbio la riduzione degli sprechi e soprattutto il taglio di uno degli uffici più malvisti del Paese: il parlamentare. Sono frequentissimi gli scandali legati a qualche deputato o qualche senatore, ultimo quello legato alla domanda dei 600 euro legato all’emergenza Covid-19 a fronte del ben lauto stipendio. Analizzando più a fondo il delicato quadro finanziario di Camera e Senato, redatto nell’annuale bilancio dai questori, il risparmio annuale sarebbe di 52,9 milioni di euro ogni anno per la Camera dei deputati, mentre il taglio del Senato avrebbe un risparmio potenziale di 28,7 milioni di euro. Il totale è di 81, 6 milioni di euro annuali ossia poca roba se pensiamo che il referendum da solo costa 300 milioni di euro. Questo vuol dire che per ripagare la votazione sarà necessaria quasi una legislatura intera, nell’improbabile caso che in Italia una legislatura duri per intero.
Inoltre si deve fare una piccola considerazione: se ci sono meno parlamentari a svolgere le stesse funzioni che prima erano prerogativa di un numero più ampio di loro, saranno inevitabilmente più oberati di lavoro, con una non indifferente contrazione della produttività. Se si volesse veramente risparmiare qualche milione (eliminando privilegi ritenuti assurdi) sarebbe sufficiente selezionare in modo più accurato i propri rappresentanti.
Sembra, quindi, al quanto carente l’argomento del risparmio, anzi appare proprio un punto fragile. In un Paese dove l’economia sommersa secondo l’Istat supera i 200 miliardi all’anno, viene il sospetto che questo sia l’ennesimo provvedimento demagogico per incanalare la rabbia popolare verso bersagli inutili per mantenere lo status quo, evitando di cambiare davvero le cose rischiando di perdere i voti di qualche fascia della popolazione che si scontenta con dei veri mutamenti.
L’ultima analisi che mi sento di manifestare riguardala necessità di una riforma elettorale basata sul proporzionale a seguito della eventuale vittoria del Sì. A ben vedere, infatti, il taglio dei parlamentari aggraverebbe il delicato rapporto fra le due Camere del Parlamento, perché gli elettori del Senato sarebbero di più, ma con meno seggi da distribuire e quindi meno Senatori da eleggere. Ciò comporterebbe, ancora una volta, una situazione di possibile grave instabilità governativa. Pertanto, vi sarebbe un Senato con una variegata composizione politica con una eventuale risicata maggioranza dettata da pochi senatori e una camera bassa, la Camera dei Deputati, con una netta maggioranza affermata dal premio di maggioranza e dal sistema di attribuzione dei seggi non regionale. Ciò comporterebbe un alleggerimento maggiore, di quello tuttora presente, del peso politico della nostra Camera alta, il Senato. A suon di fiducia il Senato potrebbe finire a ratificare quanto già fatto alla Camera e verrebbe compromesso il sistema di legiferazione basato sul principio di bicameralismo paritario che verrebbe minato.
Per evitare questa distorsione è in discussione una nuova legge elettorale per modificare il sistema elettorale in senso totalmente proporzionale. Attualmente il nostro sistema è una combinazione di maggioritario e proporzionale. Se il sistema tornasse interamente proporzionale sarebbero eliminati i collegi uninominali che favoriscono i raggruppamenti più forti, la tenuta della governabilità e rafforzano i legami territoriali tra elettori e rappresentanti. Un sistema solo proporzionale garantisce meglio la rappresentanza ma condurrebbe anche ad un parlamento più frastagliato, con accordi di governo più fluidi.
Di sicuro una eventuale approvazione del referendum aprirebbe una nuova fase politica fatta di delicate scelte di potere per accaparrarsi i pochi seggi rimasti. Pensiamo alla Sicilia che sarà tra le regioni più penalizzate, passando da 25 a 15 deputati nel collegio 1, con una perdita del 40 per cento e nel collegio 2 a 17 deputati e una riduzione del 37%. Andrà meglio al Senato dove saranno eletti 16 senatori a fronte dei 25 attuali con un calo del 36%.
Con l’approvazione della riforma saranno, in ultimo, saranno ridotti anche i parlamentari eletti dagli italiani all’estero che passeranno da 12 a 8 e i senatori da 6 a 4 svilendo la Circoscrizione Estero, creata con la riforma Costituzionale del 2000, che risponde a due principi che non possono essere negati: il pieno esercizio dell’effettività del diritto di voto e di rappresentanza diretta dei cittadini italiani all’estero, e l’esigenza di non riversare all’interno dei Collegi elettorali italiani il voto di milioni di residenti all’estero che potrebbe di fatto condizionare o stravolgere le scelte locali.
Verrà inoltre stabilito un tetto massimo al numero dei senatori a vita nominati dai presidenti della Repubblica: mai più di 5 contemporaneamente presenti e non più 5 nominabili dal Presidente della Repubblica in carica”.